Uno dei concetti su cui ho sempre evitato di soffermarmi è la necessità delle persone di comunicare fra loro, aprirsi e condividere, ma soprattutto confidarsi.

Nei momenti più bui, quando siamo vulnerabili, soli, tristi… parlare con un’altra persona diventa una necessità dal quale non riusciamo a sfuggire.

In questi momenti riaffiora la componente egoistica dei nostri rapporti relazionali: abbiamo bisogno di validazione e di supporto, semplicemente abbiamo bisogno di una seconda opinione, ma stiamo davvero cercando una conversazione?

Alla fine della storia, degli altri, ce ne frega sempre molto poco

La realtà è che anche in questi momenti nel quale il nostro io tende una mano verso gli altri, la funzione che ci definisce continua a vertere su noi stessi, alla massima espressione della nostro egoismo in un atto estremo di autodeterminazione.

Questo è uno dei periodi in cui, per un motivo o per l’altro ho raggiunto uno dei massimi livelli di solitudine (incidentale, ma anche autoimposta) e questo mi ha portato a riflettere realmente sul valore delle relazioni che ho con le persone che mi circondano e, in maniera del tutto sorprendente almeno per me, rabbia, rimorsi e rimpianti hanno lasciato il posto a un solo e unico valore: gratitudine.

In questo profondo viaggio nell’annullare tutto ciò che mi rappresenta, ho finalmente trovato quello che cercavo per poter davvero apprezzare ciò che avevo, ma non ho mai reputato di valore, figuriamoci valorizzarlo. Averi, situazioni, persone straordinarie che non ho mai guardato con il punto di vista che meritassero. Tornerò su questa cosa perchè è una cosa a cui sto tenendo molto.

In questo singolo momento di lucidità, mi è venuta in mente 13 Reasons: quando ho visto la storia di Hannah Baker semplicemente avevo colto gli elementi narrativi, ma non avevo mai empatizzato con la figura poco likable di Hannah, eppure in questo momento così strano quell’oggetto inutile che abbiamo come cervello si è attivato e mi ha fatto empatizzare con una dinamica che avevo sempre sottovalutato.

Hannah è insopportabile. Clay è peggio.

Un fattore importante su cui non ho mai ragionato è che sono unlikeable non per quello che fanno, ma per il loro modo di reagire e affrontare le problematiche, un modo soprendentemente umano e per questo così poco piacevole da osservare con la debita distanza a video.

L’equilibrio fra un approccio altamente annichilente come il mio porta a un modello di comportamento che si riassume in “arrecare il minimo disturbo possibile al prossimo”, che di fatto si traduce in un sopprimere quell’istinto di comunicazione basale che riteniamo così importante. Sull’altro lato della bilancia un amore per noi stessi che non riesce a essere soppresso perchè è così radicato e forte da essere l’unica cosa in grado di tirarci fuori dal baratro.

Il punto di equilibrio dinamico fra questa volontà di soppressione e incontrollata forza di autodeterminazione trova il suo sfogo in silenziose richieste di aiuto che vengono inviate attraverso tutti i canali che abbiamo a disposizione in attesa che qualcuno che ascolti. Purtroppo non è una speranza, ma è una pretesa e questo crea frizioni e aspettative che quando naturalmente vengono disattese, hanno un effetto ancora più detrimentale.

Stai bene?

Si’.

Qual è il meccanismo che scatta dietro? Semplicemente non riesco ancora a isolarlo, ma il pattern che si evince è quello della massima trasparenza nel comunicare il proprio pensiero, una e una sola volta, senza possibilità di replica, senza ripetizioni. Una semantica “At least once” viene soppiantata da una “At most once” e di fatto diventa una forma di delega delle responsabilità nel quale la persona da vittima diventa prosecutor che si trincea dietro un “ve l’avevo detto”, completamente deresponsabilizzandosi.

E’ un processo rischioso e estremamente autodistruttivo (non c’e’ alcun tipo di costruzione in un dialogo reso inesistente) e di fatto anche estremamente umano e per questo non ci piace, perchè ci è familiare.

Ovviamente non possiamo controllare le persone che ci circondano, possiamo solo sperare di essere circondati da persone che si curino di noi, quello che possiamo fare è essere attenti ai segnali e riuscire rispondere alle situazioni quando riconosciamo i pattern di un “Silent scream for help” perchè davvero ogni contributo, un gesto o una singola parola, fa una enorme differenza.

Takeaways

  • Seek help, il nostro grido di aiuto silenzioso sarà al 99% delle volte ignorato, mettere in piedi strategie differenti per minimizzare il rischio
  • Massimizzare il danno, lingering in uno stato di comfort (in questo caso di discomfort) non porta alcun giovamento, portarsi agli estremi per innescare una reazione forte
  • Tagliare ogni relazione tossica o intossicante per avere la lucidità di fare scelte
  • Circondarsi di persone che tengano a voi